Vi sembrerà paradossale, ma il più grande produttore di Big Data siamo noi, sì proprio tu che leggi in questo momento questo post, che produci dati a getto continuo, su tutte le possibili piattaforme online che frequenti tutti i giorni. Potrebbe sembrare una forzatura ma di fatto è così. 

 

Dai primordi dell’informatica, quando la produzione e la gestione dei contenuti era a titolo esclusivo dei dipartimenti IT, prerogativa di tecnici super specializzati, gli unici ad avere le mani in pasta in questa complicata “materia”, ma ad oggi le cose sono molto cambiate. Potremo dire che la situazione si è completamente capovolta

 

Agli inizi, possiamo etichettare come la fase Web 1.0, le pagine HTML per produrre siti le facevano gli sviluppatori, quindi un’esigua minoranza di tecnici. Col Web 2.0, la fase dello “user generated content”, gli utenti hanno cominciato a interagire con i siti potendo proporre i propri commenti e interagire attivamente con i contenuti dei Blog, se non addirittura tramite piattaforme specializzate, configurare una presenza web per sé, o per la propria azienda, senza dover essere degli informatici. 

 

Ma la vera rivoluzione si è avuta con la nascita dei Social Networks. In queste piattaforme potremmo dire letteralmente che i dati siamo noi, e questi dati sono davvero tanti, sono i Big Data! Qui non solo interagiamo attraverso i computer, ma da molti anni attraverso i nostri smartphone, alimentiamo la catena di produzione di colossi come Facebook, Twitter, Google, perché di fatto noi siamo il prodotto di questi servizi con i nostri dati, anche se ci danno l’illusione di poter partecipare gratis. 

 

Per tutto il tempo in cui siamo connessi (svariate ore al giorno per molti di noi) di fatto siamo dati: “siamo fatti della stessa sostanza dei dati” potremmo recitare, storpiando una nota citazione di Shakespeare

 

Ovviamente ci sono i dati prodotti nelle aziende e anche quelli generati dalle pubbliche amministrazioni e dalle istituzioni internazionali, come Eurostat, la World Bank, Open Street Map, che alimentano il movimento degli Open Data. Ma il grosso dei Big Data deriva in un modo o nell’altro da tutto ciò che ruota attorno ai Social. 

 

Ora il punto è chi può fruire di questi dati una volta che la massa degli utenti ne ha ceduto l’utilizzo a queste piattaforme? 

La risposta cambia a seconda del servizio. Per esempio Google mette a disposizione gratuita le statistiche dell’enorme bacino delle “query” del proprio motore di ricerca attraverso un servizio che si chiama Google Trends (https://trends.google.com/). 

 

In pochi tocchi, per qualsiasi parola chiave, è possibile avere una stima del volume di ricerche nel tempo e in specifiche zone geografiche. Uno strumento preziosissimo in ambito marketing per sondare il gradimento rispetto a certi temi, magari legati al lancio di un prodotto, o per esempio in ambito comunicazione politica per capire le alterne vicende della popolarità di partiti e leader. 

 

Nel caso dei Social, Twitter concede una buona parte dei propri contenuti gratuitamente tramite le API (modalità programmatica per l’accesso ai dati, sta per Application Programming Interface), mentre Facebook, soprattutto dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, ha notevolmente ristretto i bocchettoni. Linkedin invece è comprensibilmente super geloso dei propri contenuti e non da praticamente alcuna possibilità di accesso, e ostacola in tutti i modi anche la possibilità di fare “scraping”, cioè di carpire i dati tramite l’interfaccia web del servizio. 

 

La proprietà e fruibilità di questa enorme massa di dati prodotta dagli utenti è un caldissimo tema di dibattito politico a livello internazionale: potrebbe essere concepibile considerare questi dati come una sorta di bene pubblico, magari gestito da un organo sovranazionale, al pari di risorse come l’acqua o le fonti energetiche, come bene inalienabile dell’umanità. 

 

La questione attende ancora una soluzione e la prossima ondata di dati prodotti dall’Internet of Things (IoT), vale a dire degli oggetti dotati di sensori, sparsi nell’ambiente e nelle Smart City, sorta di sensorizzazione di Internet del mondo, non farà che rendere più pressante il problema. Per noi che li produciamo e per le aziende che tutti i giorni cercano di averne una fetta sufficiente per alimentare i propri business, non rimane che sottostare alle ferree regole dettate dai big player di Internet, cercando di sopravvivere in un mercato iper competitivo e affamato di dati freschi e ricchi di informazioni.